Il Greenwashing è una strategia pubblicitaria ingannevole perseguita da aziende, istituzioni ed enti che affermano il proprio impegno per l’attuazione di pratiche ecosostenibili che però non si concretizzano in azioni reali e testimoniabili. Le aziende, quindi, si mostrano eco-friendly ma in realtà non lo sono affatto.
In Italia il Greenwashing è considerato pubblicità ingannevole, è controllato dall’Antitrust (l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato) ed è perseguibile legalmente: uno degli esempi di Greenwashing più conosciuti in Italia è quello della bottiglia “Impatto zero” di Ferrarelle, multata nel 2012 in quanto sosteneva erroneamente che la sua acqua da 1,5 litri non avesse impatto sull’ambiente.
Ma perché un’azienda dovrebbe dichiarare il falso, affermando il proprio interesse per la sostenibilità, se di fatto non è così?
Come abbiamo spiegato in questo articolo, per un’azienda è diventato ormai fondamentale inserire all’interno del proprio business un sistema che consenta di ridurre l’impatto ambientale anche a fini reputazionali, oltre che economici (legati all’ampliamento del bacino di clienti e di investitori) e legali. Questo aumenta infatti il valore del brand ma, allo stesso tempo, richiede molti sforzi sia in termini economici che gestionali.
Le azioni pubblicitarie di Greenwashing consistono in affermazioni vaghe e generiche, mai provate da dati misurabili e certificati. Ad esempio, termini quali “non tossico” o “naturale” non hanno un significato specifico e non devono essere accompagnate da certificazioni ufficiali, ma possono risultare molto allettanti agli occhi di consumatori sensibili a queste tematiche.
Esse si concentrano inoltre su caratteristiche molto specifiche dei prodotti, sviando così l’attenzione da problematiche più gravi (ad esempio, termini come “a basso contenuto di grassi”, “proteico”, “biologico” per quanto veri, potrebbero distogliere l’attenzione del consumatore da altre criticità come l’alto contenuto di zuccheri o la scarsa qualità degli ingredienti).
In queste pubblicità troviamo solo dati non scientificamente provati e non testimoniati da analisi interne.
Nei casi più gravi, infine, vengono utilizzate etichette o certificazioni false o contraffatte.
Come capire se un’azienda sta attuando le azioni di sostenibilità di cui parla?
All’opposto delle strategie di Greenwashing troviamo il Green Marketing, ossia l’insieme di azioni attuate dalle aziende per ridurre la propria impronta ambientale, attraverso processi programmati, misurabili e certificati.
Il lavoro che circonda le strategie di Green Marketing è lungo, complesso e impegnativo. Si tratta di rendere credibile l’azienda, dimostrando coerenza, trasparenza e concretezza.
L’azienda dovrebbe iniziare con una presa di coscienza: dovrebbe analizzare l’impatto ambientale che i propri processi hanno avuto negli anni precedenti, assumendo la consapevolezza delle proprie azioni sia a livello di emissioni di sostanze inquinanti, che della cattiva gestione delle risorse.
Se si tratta di un’azienda nuova, l’obiettivo sarà quello di stabilire fin da subito la propria visione Green, con la promessa di dimostrarlo attraverso azioni concrete e testimoniabili.
Alcuni esempi credibili e misurabili di Green Marketing sono, ad esempio, la creazione di una linea di prodotti “Green” certificata; packaging riciclato e/o riciclabile; organizzazione di progetti di riforestazione per compensare le proprie emissioni; riduzione dell’uso di plastica o altri materiali inquinanti e difficilmente smaltibili e così via.
Tutte queste strategie devono essere tracciabili, documentate e comunicate in modo trasparente.
Prima del 2014 non esisteva in Italia un chiaro riferimento alle pratiche di Greenwashing: ci si appellava alla generica pubblicità ingannevole. Da marzo 2014, però, è stata pubblicata dall’istituto Autodisciplina Pubblicitaria la cinquantottesima edizione del Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale, che proponeva un primo riferimento all’abuso di diciture che richiamino la tutela ambientale.
Oggi, come accennato, il Greenwashing viene considerato pubblicità ingannevole ed è controllato dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato.
The Fool, una società di consulenza digitale specializzata in Social e Web Analytics, Monitoraggio Online, Gestione del Rischio, Tutela della Reputazione Online e Tutela Legale degli Asset Digitali, ha condotto uno studio sul Greenwashing in Italia, analizzando i soggetti interessati al tema e i cambiamenti delle community tra il 2021 e il 2022.
Il primo elemento che emerge dall’analisi consiste nella scarsa fiducia dei consumatori verso le dichiarazioni di impegno ambientale dei brand:
- L’8% non si fida affatto
- Il 68% si fida poco
- Il 22% si fida molto
- Solo il 2% si fida completamente
«C’è un desiderio – spiegano gli osservatori – di pratiche aziendali più olistiche e trasparenti –. I consumatori vogliono che le aziende diano il loro contributo alla comunità locale, alla beneficenza, ai loro dipendenti e che influenzino positivamente l’ambiente».
Inoltre, il 48% degli intervistati dichiara che sarebbe scoraggiato ad acquistare da un brand in presenza di false dichiarazioni di sostenibilità.
Nel report si afferma: “La discussione sul tema del Greenwashing passa da argomento ideologico a tema mainstream. Questa trasformazione avviene in un lasso di tempo piuttosto veloce (meno di 12 mesi) ed ha il potere di intercettare nuovi target di consumatori, meno idealisti e organizzati.
Se quindi la tendenza non si invertirà, si avrà un maggiore impatto su sempre più fasce di consumatori, che verranno intercettati da questi tipi di informazioni e quindi matureranno sempre di più una sensibilità sul tema. Sensibilità che sembra svilupparsi all’interno dell’asse oppositivo razionale vs emozionale.
Insomma: alcuni consumatori usano la testa, altri il cuore, ma tutti sono concordi nel denunciare e condannare la pratica. Quale che sia quindi l’approccio cognitivo dei consumatori, l’analisi dimostra come il Greenwashing oggi sia un rischio ad alto potenziale per le aziende, proprio perché la portata del suo interesse ha travalicato la linea dell’attivismo, sconfinando tra le «normal people».”